Dalla legge sulla razza a Furio Colombo che “spiega” Gary Hart

Tradire il proprio Stato è considerato un infame delitto. Ma quanto è più abietto, allora, lo Stato che tradisce i suoi cittadini? Eppure è quel che fece l’Italia ottant’anni fa, con le leggi razziali. Lo racconta Pietro Suber in “1938 – Quando scoprimmo di non essere più italiani”, il documentario che ha aperto la densa domenica del Trevignano FilmFest. Storie di vittime, di persecutori, di spie, forse soprattutto di gente che si voltò dall’altra parte.

Sul palco del cinema Palma, quando le luci si sono riaccese, Suber è stato accompagnato da Lea Polgar, testimone diretta dell’orrore. “Un giorno ai miei genitori fu tolto letteralmente tutto, dalla patente di guida, all’ingresso al circolo del tennis, al diritto di lavorare. Era come smettere di vivere. Dopo la guerra è stato molto difficile tornare alla normalità. Non raccontavamo perché ci sembrava che gli altri non credessero, e comunque non fossero interessati. Mi sono sposata, ho avuto tre figli, una vita tranquilla, ma c’è voluto molto tempo per smettere di avere paura”.

Uno scenario angosciante, ma purtroppo plausibile, è quello tratteggiato in “Vota Waldo”, un profetico episodio della serie tv Black Mirror. E’ la storia di un personaggio di cartone animato, un orsetto blu, che irrompe sulla scena di una campagna elettorale e se ne impadronisce. Le sue armi, o meglio le armi di coloro che lo manovrano: la volgarità che uccide il ragionamento, l’aggressione che schiaccia il confronto, l’ammiccamento ai peggiori istinti del pubblico. Arriva a un pelo dal vincere le elezioni. Ma soprattutto, guasta per sempre il paesaggio politico e morale. E nel finale ci pensa una polizia brutale a calpestare le trasgressioni di chiunque non sia Waldo.

E’ la sintesi perfetta del “populismo digitale” in tre quarti d’ora di tv. Lo hanno spiegato Umberto Zona e Martina De Castro, docenti del dipartimento di Scienza della formazione dell’università Roma 3. “A dargli spazio sono la crisi delle grandi narrazioni collettive e quella della rappresentanza politica, insieme a una reazione alla globalizzazione”. E benché ambientato in Gran Bretagna, “ ‘Vota Waldo’ per molti versi ha anticipato quel che è stato costruito in Italia dalla Casaleggio e Associati”. Anzi, “il laboratorio Italia funzionava già negli anni 90. Per comportamento, linguaggio, perfino timbro di voce l’orsetto blu richiama immediatamente il Gabibbo”. E oggi basta guardarsi intorno, frequentare anche moderatamente la Rete, osservare “il depauperamento del linguaggio politico, l’uso del turpiloquio come strumento di attacco personale”. Quanto ai destinatari di queste tecniche, la “gente” indistinta, “si fida e si affida al Web come un tempo alla televisione”.

Ed eccola sciorinata in un documentario, la crisi di una delle grandi narrazioni collettive. Per girare “I had a dream – Avevo un sogno”, che il TFF ha proiettato in anticipo sulla distribuzione nelle sale, Claudia Tosi ha seguito per dieci anni la vita pubblica, ma anche un po’ quella privata, di due militanti di mezza età del Pd a Carpi, nel cuore di quella roccaforte emiliana che pareva inespugnabile: Daniela Depietri, assessora, e Manuela Ghizzoni, deputata. Raccontate dal 2008 dei comizi ancora gremiti al 2018 del tracollo elettorale. Inquadrato da due frasi del film: “Che cosa accade alla democrazia quando la politica fallisce?” domanda e si domanda Depietri. “Non si vota con la testa, si vota con il sentimento”, medita Ghizzoni. “E il sentimento è una cosa nobile”.

Un film “che andrebbe proiettato in tutti i circoli del Pd ancora in piedi”, ha commentato dal palco Riccardo Barenghi, analista politico della “Stampa”; sua la laconica e implacabile satira politica firmata Iena. Tratteggiando le tappe della sconfitta: “Una volta perso il nemico, Silvio Berlusconi, il centrosinistra si è sfatto. E con gli anni anche la sinistra ha finito per autorappresentarsi come casta”. Depietri ha spiegato come le due protagoniste del documentario cercano adesso di rimettere insieme i cocci. “Manuela e io ci siamo un po’ messe da parte, cerchiamo di disintossicarci. Ci occupiamo di cose che non vengono ‘pagate’ con poltrone e prebende, ma danno soddisfazione”. La regista Tosi ha raccontato le reazioni delle giovanissime a cui ha mostrato il documentario: “Per loro quello è un mondo di dinosauri. E prima sparisce, meglio è”.

Furio Colombo – giornalista, docente universitario, decano degli americanisti italiani – ha introdotto “The front runner”, la storia di Gary Hart, stimolato dalla giornalista Luciana Capretti. Nel 1987 Hart era lanciatissimo come candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti. Ma un paio di giornalisti scoprirono un suo affare di letto con la modella Donna Rice. Rompendo la tradizione che imponeva alla stampa americana d’ignorare gli affari privati dei politici, resero pubblico lo “scandalo”. Fu la fine della candidatura. Ma soprattutto l’inizio di una stagione in cui il pettegolezzo sostituì ogni analisi seria dei programmi e delle convinzioni dei politici; e il giornalismo abdicò al suo ruolo senza neppure rendersene conto.

“L’informazione non era complice delle scappatelle di John Kennedy o Lyndon Johnson. Semplicemente, attribuiva poca importanza agli affari privati delle persone”, ha rievocato Colombo. “A cambiare la situazione è stato l’arrivo alla militanza politica del protestantesimo fondamentalista, con la sua attenzione ossessiva ai comportamenti relativi al sesso”. Ma allora, perché i cosiddetti evangelici appoggiano senza riserve Donald Trump, che ha comportamenti e linguaggio opposti? “Il fatto è che tra la parola fondamentalismo e la parola cristianesimo, quella che conta davvero è una terza: vale a dire la ricerca del potere”.

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