Da New York a Londra, un’altra pista di lettura

Francesca Bini e Michele Concina, del board del FilmFest, hanno analizzato le recensioni di alcuni fra i più prestigiosi giornali internazionali sui film che proietteremo, dal New York Times al Guardian, da Variety a Screen International, carpendo e traducendo per voi le parti più significative. E così lo spettatore del quarto Trevignano FilmFest potrà avere una documentazione completa.


Timbuktu

Hollywood Reporter, Debora Young, 15 maggio 2015
Il nome di Timbuktu evoca avventure esotiche; importante snodo commerciale nell’impero del Mali, durante la sua età dell’oro era un centro universitario di cultura islamica. Ma dopo aver visto il dramma devastante di Abderrahmane Sissako, è probabile che diventi un sinonimo per i peggiori eccessi del fondamentalismo islamico, che sono raffigurati senza pietà in tutta la loro quotidiana crudeltà, nel loro orrore e nella loro stupidità.

The Guardian, Jonathan Romney, 31 maggio 2015
Il film africano Timbuktu inizia con un’antilope che corre per sfuggire ai cacciatori e si conclude con un’adolescente che fugge allo stesso modo. Sia l’animale che la ragazzina rappresentano, implicitamente, il Mali, un paese che lotta per sopravvivere alla repressione della sua cultura da parte dei militanti islamici.
Maligno e fantasioso, Timbuktu evita di manipolare emozioni e valori, a differenza di tanta parte del cinema impegnato nell’attualità. Il film è una panoramica che oscilla continuamente tra le storie e i personaggi, costruendo il suo effetto in modo ellittico, per meglio colpirci nel finale con tutto il peso del suo messaggio.
Un lavoro di intensa rabbia e compassione, Timbuktu è una lezione sulla potenza polemica di cui può essere capace un’opera cinematografica può essere polemica, quando è girata usando ogni più sottile sfumatura di finezza artistica, tra cui la fotografia panoramica di Sofiane El Fani, che contrasta la durezza dell’ideologia jihadista con il calore della luce irradiata dal deserto su edifici, dune e volti. Certo, c’è poco d’incoraggiante nelle situazioni rappresentate, eppure il film di Sissako s’immerge nella gioia della gente, della musica e del cinema, trasformandosi in una formidabile dichiarazione di resistenza.

Variety, Jay Weissberg, 14 maggio 2014
Nelle mani di un maestro, indignazione e tragedia possono essere rese con chiarezza ma anche sottigliezza, evitando gli isterismi per lasciare spazio a toni più profondi, più ricchi di sfumature. Abderrahmane Sissako è appunto un maestro, e mentre i suoi precedenti film hanno dimostrato la sua abilità nell’infondere una dignità magnetica ai suoi personaggi, Timbuktu conferma il suo status come uno dei veri umanisti del cinema recente.
Come nei suoi precedenti film (“Bamako”, “Aspettando la felicità”), Sissako mette in mostra una struttura corale, qui concepita per descrivere la composizione multiculturale di una zona in cui cittadini di varie etnie e nomadi Tuareg coabitano in modo abitualmente rispettoso. Jihadisti che parlano arabo, inglese e francese, nuovi arrivati, pattugliano la città e i suoi dintorni (le riprese sono state effettivamente eseguite nelle città mauritane di Oualata e Nema), imponendo divieti sulla musica, il calcio, su gran parte delle attività sociali, e sul volto scoperto delle donne. L’imam locale (Adel Mahmoud Cherif) contesta con calma contro il loro dogma ottuso e ultra-ortodosso, ma non ha influenza su questi intrusi, un gruppo cencioso composto da leader dottrinari e dai loro giovani seguaci, per lo più irresoluti.
Sissako afferma di essere stato insopportabilmente turbato da un video, diffuso online, di una coppia non sposata sepolta fino alla testa e lapidata a morte; nel film include una scena simile, mostrando quanto basta per far trasalire lo spettatore, ma non tanto da imporgli uno spettacolo cruento. E’ parte della potenza di Timbuktu, che conferisce ai suoi personaggi orgoglio e amore, mostra la loro dignità rubata, e rispetta la loro umanità abbastanza da rifiutare una chiarezza pornografica quando sono picchiati, o peggio. Come sempre nei film del regista, le donne sono presenze sagge e forti, troppo spesso vittime della testarda impulsività maschile.”

Screen International, Dan Fainaru, 15 maggio 2014
La sceneggiatura è basata su un evento avvenuto alcuni anni fa in una piccola città del nord del Mali. Nel 2012, durante il breve periodo in cui governavano la regione, jihadisti islamici hanno giustiziato una coppia che conviveva e cresceva i propri figli senza essere formalmente sposata. A partire da questo episodio, la sceneggiatura traccia un confine ben chiaro tra la fede della gente del posto, semplice, pia, ma rispettosa, e il brutale, disumano comportamento degli invasori, che affermano, anche se non sono probi né davvero religiosi, di perpetrare i loro orrori in nome di Dio.
Anche se la trama ruota attorno a una coppia, Kidane (Ibrahim Ahmed) and Satima (Toulou Kiki), che vive tranquillamente su una duna fuori città, finchè un pescatore vicino uccide una delle loro mucche, Sissako disegna un intreccio più ampio ed elaborato di dettagli, offrendo un’immagine complessa d’innocenza calpestata dalla follia fondamentalista, che ha poco a che fare con la religione o la fede, e molto di più con una sete di potere illimitato, che usa la religione solo come pretesto per schiacciare ogni tipo di insubordinazione.”
Il casting funziona perfettamente, sia per quanto riguarda i professionisti (che interpretano per lo più jihadisti), che per i non professionisti. Le riprese di Sofiane El Fani (che ha girato La vita di Adele) confermano che si tratta di un astro nascente, abile tanto nei ritratti intimi quanto negli ampi paesaggi.”

NYTimes, A. O. Scott, 27 gennaio 2015
Il potere dei jihadisti in Timbuktu è crudele, ma anche assurdo. Sissako, che è nato in Mauritania e ha ambientato i suoi film per lo più in Mali, come questo, esamina le sfumature di questa assurdità con occhi calmi, compassionevoli e spietati. Il vizio più ovvio dei miliziani che controllano la città desertica di Timbuktu è l’ipocrisia.
Collettivamente, questi guerrieri nel nome di Allah sono un gruppo di bulli. Sono indifferenti alle usanze locali, ignorano molte delle lingue parlate dagli abitanti di Timbuktu, un antico snodo commerciale rinomato per il suo cosmopolitismo. Presi uno per uno, i combattenti sono a volte sadici, a volte deboli, a volte gentili, spesso confusi. Mostrarli in questo modo non significa ‘umanizzare’ il fanatismo, un’accusa spesso rivolta incautamente alle storie che evitano di presentare un conflitto politico come una semplice lotta fra il bene e il male. Come potrebbero i cattivi essere altro che umani? La loro follia è nella convinzione di poter trascendere quella condizione, e santificare gli altri musulmani per mezzo del terrore. Possono essere sinceri nella loro devozione al loro Dio e al suo profeta, ma restano degli idioti. Timbuktu è un atto di resistenza e di vendetta perché rivendica il potere della laicità non come ideologia, ma come ostinata realtà della vita.
La storia di Timbuktu è un intreccio di aneddoti e sotto-trame, ma torna spesso alla tenda sulle polverose colline fuori città dove Kidane (Ibrahim Ahmed) vive con la moglie Satima (Toulou Kiki) e la figlia Toya (Layla Walet Mohamed), badando alle vacche e bevendo tè. La presenza dei fanatici, armati fino ai denti, che governano Timbuktu trasforma una disputa fra Kidane e un vicino in una tragedia colma di orrore. Ma Kidane è ben più che una vittima innocente, proprio come il film di Sissako è più che una semplice polemica. Kidane è un simbolo di decoro e tolleranza, di tutto ciò che gli estremisti vogliono distruggere, proprio perché è un individuo affascinante, pienamente padrone di sé. E Timbuktu è un film politico nel senso in cui lo sono Ladri di biciclette e Tempi moderni: appare allo stesso tempo puntuale e durevole, immediato ed essenziale.”


La sposa promessa (“Fill the void”)

NYPost, Farran Smith Nehme, 23 maggio 2013
Rama Buhrstein ambienta il suo dramma sociale tra gli ebrei ultra-ortodossi di Tel Aviv. Shira (Hadas Yaron) ha diciotto anni, e gli adulti avviano i passi necessari per darla in sposa. In questo mondo, i matrimoni sono combinati, ma è necessario il consenso sincero di Shira. Poi sua sorella Esther (Renana Raz) muore di parto, e il vedovo Yochai (Yiftach Klein) propone di risposarsi e di trasferirsi in Belgio con una nuova compagna e il figlio. La madre di Shira (una Irit Sheleg particolarmente severa) non sopporta questa prospettiva, ed elabora un piano: perché Shira non dovrebbe sposare Yochai? Il contesto sociale è piuttosto interessante. Buhrstain è lei stessa ortodossa, e il film offre una rara occasione di osservare quel mondo dalla prospettiva di chi ne è parte. Qui, i bisogni umani devono conformarsi al rito, e non viceversa.

NYTimes, A. O. Scott, 23 maggio 2013
La storia raccontata da Rama Burshtein in La sposa promessa, il suo notevole film di debutto, ha una semplicità quasi classica. Shira (Hadas Yaron), una giovane donna che vive in un’enclave ultraortodossa di Tel Aviv, si trova di fronte a una scelta non diversa da quella delle eroine dei romanzi di Jane Austen o delle commedie romantiche di Hollywood. Quale uomo sposerà? Per Shira, è una questione particolarmente angosciante perché la costringe a bilanciare gli impulsi di fedeltà familiare, i doveri religiosi e i propri desideri.”
Quel che il film evidenzia, con sicura sensibilità e obliquo senso dell’umorismo, è che per Shira e la sua famiglia le modalità della vita di tutti i giorni sono cariche di significato morale e spirituale. Le loro giornate sono imperniate sulla preghiera, l’osservanza dei riti e l’obbedienza alla legge ebraica, ma il loro mondo non appare angusto e austero. Al contrario, a volte è quasi insopportabilmente pieno di sentimenti e significati.

The Guardian, Mark Kermode, 15 dicembre 2013
Scritto e diretto da Rama Burshtein, le cui opere precedenti sono indicate come “film per la comunità ortodossa, alcuni di essi riservati alle donne, La sposa promessa dà una voce risonante a personaggi che spesso sembrano esistere all’interno di un grande silenzio. Come i protagonisti dei romanzi di Jane Austen, che Buhrshtein cita come influenze rilevanti, queste donne vivono in una società nella quale le loro scelte sono limitate da regole rigidamente applicate. Eppure sono le loro scelte, le loro emozioni, i conflitti e le risoluzioni che guidano e definiscono il racconto.
Alcuni spettatori potrebbero trovare questa visione del mondo insopportabilmente estranea; l’accettazione di un’esistenza in cui tutte le promesse e le possibilità di vita sono limitate dalla prospettiva di un matrimonio inevitabile scatena una quantità di problemi, sia personali che politici. Eppure Burshtein usa i limiti della sua storia a proprio vantaggio, concentrandosi sull’indipendenza inaspettata di Shira, sottolineando il valore delle voci femminili all’interno della comunità, ribadendo il ruolo della scelta, anche all’interno di unioni combinate.

Screen International, Dan Fainaru, 2 settembre 2012
Questo sguardo intimo gettato sulla comunità ebraica ortodossa da parte di un suo affiliato, una rarità sugli schermi, ha una provenienza inaspettata, dato che Rona Buhrstein, che ha scritto e diretto il film, non solo è un membro attivo della comunità, ma non ha assolutamente intenzione di cambiare il suo modo di vivere dopo aver fatto questo film. La sposa promessa (Lemale et Ha’Halal) è la storia di una diciottenne che deve sposare contro la sua volontà il vedovo della sorella maggiore. E’ realizzato con il massimo riguardo, affetto e rispetto per i personaggi e avrà un notevole richiamo su un vasto pubblico, non solo per il suo evidente interesse etnografico, ma anche per il toccante, intenso dramma che mette in scena.

The Indipendent, Geoffrey Macnab, 30 giugno 2015
La regista ha parlato del suo desiderio di dare alla comunità ortodossa una ‘voce artistica e culturale’. E’ una misura del suo successo che ambientazioni, vestiti e rituali presto diventano secondari. La sposa promessa funziona perché è un dramma ben scritto, diretto con delicatezza, e ha temi riconoscibili da ogni pubblico.

Los Angeles Times, Kenneth Turan, 24 maggio 2013
Anche se in questo mondo i matrimoni sono combinati, La sposa promessa si dà un gran da fare per mostrare che queste unioni possono rivelarsi felici e piene d’amore. Inoltre, nell’accordo tra le famiglie la giovane donna non è costretta a sposare la persona scelta per lei. Ma dato che la famiglia, la cultura e la comunità sottopongono i giovani a forti pressioni, esistono molte possibilità che le preferenze personali siano rese irrilevanti. Questo è lo spazio drammatico in cui vive questo film.

Washington Post,  Stephanie Merry, 6 giugno 2013
Nonostante la trama pesante, il film rimane sobrio. Non va sopra le righe, neppure quando Shira sente il peso immenso delle aspettative della madre perché sposi un uomo che non aveva mai immaginato di amare. Anche Yochay sente la tensione. Ma piuttosto che ricorrere a rabbia o ad aggressività passiva, guarda Rivka e dice semplicemente: ‘Mi stai facendo pressioni.’ I personaggi e le sequenze del film di debutto di Rama Burshtein, regista e sceneggiatrice, sembreranno estranei al grosso del pubblico americano. Gli attori vestono secondo le usanze dell’ebraismo ortodosso; le tradizioni della fede sono evidenti (in particolare la separazione dei sessi); e ogni giovane donna non sposata sembra impegnata esclusivamente a trovare un marito. Eppure, la storia risulta notevolmente universale con i suoi temi della perdita e della lealtà verso la famiglia, per non parlare della presa di coscienza che la vita può non corrispondere alle nostre aspettative idealizzate.


Water

San Francisco Chronicle, Ruthe Stein, 28 aprile 2006
Water è un lamento elegiaco per un capitolo doloroso della storia indiana. Il titolo può essere interpretato metaforicamente come la purificazione del corpo e dello spirito. Nell’interpretazione più semplice si riferisce al Gange, che fa da sfondo a questa storia tremendamente triste. In un Paese che perpetua una tradizione capace di mutilare ampiamente la vita delle vedove, benché il Mahatma Gandhi prospetti la possibilità di una liberazione per tutti.
Il film si apre sul fiume nel 1938. Una bambina di otto anni dagli occhi luminosi viene condotta sull’altro lato del fiume insieme a un uomo più grande, evidentemente malato. Appare scontato che si tratti di suo padre. Ma presto viene rivelato che sono marito e moglie, uniti in un matrimonio combinato che la bambina, Chuyia, non ricorda. Poco dopo l’uomo muore, condannando Chuyia a una sorta di ergastolo.
La legge Hindu, di cui alcuni elementi sono ancora in vigore nell’India moderna, impone alle vedove di vivere insieme negli ashram (luoghi di meditazione e isolamento). Avvolte in sari bianchi, espiano i peccati che in qualche modo hanno portato alla scomparsa dei loro coniugi. Focalizzando l’attenzione su una ragazza, la regista e sceneggiatrice Deepa Mehta espone l’insensatezza di questa legge repressiva. Quali possibili trasgressioni può aver commesso Chuya nel breve tempo che ha trascorso sulla Terra?

NYTimes, Jeannette Catsouils, 28 aprile 2006
Scritto e diretto da Deepa Mehta, Water è uno splendido film sull’oppressione istituzionalizzata di un’intera classe di donne e sul modo in cui gli imperativi patriarcali condizionano il credo religioso. Sereno in superficie ma torbido al di sotto, il film accosta con chiarezza la situazione delle vedove sotto il fondamentalismo indù a quella dell’India sotto il colonialismo britannico. Anche se Gandhi e i suoi seguaci compaiono con frequenza sullo sfondo, il film non è mai didascalico, confidando nei facili ritmi di vita delle donne per raccontare la loro storia.

The Guardian, Philip French, 3 giugno 2007
Water è il film conclusivo di una coraggiosa trilogia di Deepa Mehta, regista indiana ora residente in Canada, che attacca l’oppressione patriarcale e il fanatismo religioso, in nome di un laicismo liberale tollerante. In Fire, ambientato ad Agra e Delhi, una moglie bella e giovane reagisce contro il marito egoista e donnaiolo allacciando una relazione con la cognata. Earth si svolge a New Delhi, dove i tragici eventi che circondano nel 1947 la separazione fra India e Pakistan sono visti attraverso gli occhi di una bambina di otto anni di fede zoroastriana, la cui bella bambinaia indù  è innamorata di un musulmano.

Seattle Post – Intelligencer, William Arnold, 11 maggio 2006
Come i film che lo precedono, è un’autentica epopea visiva … Come Fire, è una storia d’amore tragica di orientamento femminista, che attacca senza paura l’ipocrisia schiavista di una tradizione patriarcale che si è sviluppata nel corso di migliaia di anni di esigenze socio-economiche e ora ‘si traveste da religione’.
Ma come Earth, è anche una celebrazione della gloria della cultura indù, estremamente critico verso i britannici e verso l’eredità persistente del Raj (il dominio coloniale), e profondamente diffidente su dove l’internazionalizzazione occidentalizzante è in grado di condurre l’India.
Come entrambi i film precedenti, Water agisce su grande scala, quasi operistica, ma, invece di vedere il suo mondo in termini semplicistici di eroi e cattivi, è un arazzo di personaggi estremamente complessi motivati ​​da forze storiche e peculiarità di carattere.
Nel loro insieme, i tre film sembrano chiedere all’India di abbandonare sia la falsa sicurezza del fondamentalismo sia i compromessi normalizzanti della globalizzazione per trovare la propria strada. Di conservare e sviluppare ciò che è universale nella sua tradizione e sbarazzarsi di quelli che chiaramente sono anacronismi devastanti.

Washington Post, Stephen Hunter, 5 maggio 2006
Water rappresenta due sensibilità furiosamente opposte della regista e sceneggiatrice Deepa Mehta. Una è la protesta politico-culturale, alimentata dalla rabbia, e invoca la riforma: la regista anela ad abbattere una pratica, a disperderne ceneri e ossa, a stroncarla una volta per tutte. Ma l’altro impulso è raffinato, artistico: anela a tratteggiare il suo tema al minimo, con la delicatezza di un poeta o di un acquerellista, a suggerire ma mai picchiare, a convincere senza tenere discorsi.”


Kreuzweg (“Stations of the Cross”)

The Hollywood Reporter, Boyd van Hoeij, 9 febbraio 2014
Diviso in 14 capitoli che portano i nomi delle stazioni della Via Crucis (Gesù è condannato a morte, Gesù porta la sua croce…), il film racconta l’angosciosa situazione in cui viene a trovarsi la quattordicenne protagonista Maria – che cosa c’è in un nome? – mentre si prepara per la cresima e cerca di seguire le regole e di essere all’altezza delle aspettative impossibili stabilite dal suo prete e dalla sua famiglia, che appartengono a una congregazione (fittizia) estremamente rigorosa, la Società di San Paolo … Mentre il film procede da una stazione all’altra, diventa sempre più chiaro che le severe regole e aspettative sono un pesante fardello per Maria, che vuole fare la cosa giusta e anela ad essere vicina a Dio, ma che non può negare di avere  desideri popri. Brueggemann, che ha scritto la sceneggiatura con la sorella Anna, suggerisce splendidamente  come la religione può offrire appoggio o conforto nei momenti difficili, ma allo stesso tempo può soffocare qualsiasi tipo di crescita personale, un elemento particolarmente problematico per un adolescente.

The Guardian, Mark Kermode, 30 novembre 2014
Questa storia, austera in misura agghiacciante, di una ragazza condotta all’autodistruzione da un’educazione religiosa oppressivamente rigida offre un acuto esame dell’interazione tra dogma fondamentale e disfunzioni familiari, sacrificio sociale e autolesionismo sociale. Presentato con formalità rituale come una serie di quadri cinematografici fissi intitolati come le stazioni della Via Crucis, questo film ostenta un’estetica caratteristica, rigidamente regolamentata quanto le ortodossie che dipinge …  Benché il film ci inviti a considerare i tormenti devastanti della sua eroina come una forma di abuso infantile istituzionalizzato, la co – sceneggiatrice tedesca Anna Brüggemann e il regista Dietrich, suo fratello, sono attenti a non apparire dottrinari.


Viviane (“Gett: The Trial of Viviane Amsalem”)

LA Times, Betsy Sharkey, 12 febbraio 2015
Inquietante e scioccante, Viviane racconta un’incredibile realtà dell’odierno Israele. Imperniata sul divorzio, la storia è talmente provocatoria da monopolizzare il dibattito nel paese. Snerva anche sforzandosi di mantenere le distanze. Viviane (Ronit Elkabetz), moglie e madre, è a tutti gli effetti una proprietà del marito. Nessun diritto degno di questo nome, nessuna voce in capitolo o facoltà di scelta nel porre fine al suo matrimonio morto da tempo. La sua unica speranza è nelle mani di rabbini inflessibili e del marito che si oppone, Elisha (Simon Abkarian), né gli uni né l’altro inclini a soddisfare la sua richiesta. Nel corso del processo in cui insiste con il tribunale rabbinico perché annulli il suo matrimonio e le conceda il divorzio, apprendiamo che per lei non ci sono altre strade, non esistono procedure civili per porre fine a un matrimonio… Il teso dramma giudiziario è concepito come film a sé stante, ma è anche la parte finale di una trilogia scritta e diretta dai fratelli Elkabetz, Ronit e suo fratello Shalomi. In To take a wife del 2004, Viviane era una giovane madre, ma il suo matrimonio con Elisha era già sottoposto a tensioni. Nel film successivo, 7 Days, del 2008, vedevamo la famiglia in lutto mentre emergevano nuovi conflitti. Viviane, il più diretto e il più toccante, segue la protagonista che porta il suo caso in tribunale. Gli anni passano, mentre Elisha e i vari rabbini della corte rifiutano la sua richiesta.

Washington Post, Michael O’Sullivan, 26 febbraio 2015
C’è naturalmente qualche elemnto di dramma giudiziario qua e là, e a volte addirittura momenti di commedia. La testimonianza dei vicini e dei parenti di Viviane ed Elisha, ad esempio, spazia dal comico al melodrammatico. C’è qualcosa tra Viviane e il suo avvocato? Ed Elisha è solo un uomo devoto ai suoi principi, anche se distorti, o uno psicopatico?
Accanto all’intransigenza di Elisha, le domande senza risposta sono, a volte, esasperanti. Più irritante, tuttavia, è la situazione di stallo che impedisce a questa coppia di andare avanti con le rispettive vite. Questo matrimonio può essere salvato? State scherzando? E ‘come un cadavere in decomposizione che non è stato ancora sepolto. Nel film non è sotto processo Viviane. E nemmeno Elisha, che la tiene in ostaggio in nome di qualche nozione ostinata di proprietà. Piuttosto, è il sistema che è perverso, nel modo in cui tratta le mogli non come persone, ma come proprietà.


Corpo celeste

NYTimes, Rachel Saltz, 7 giugno 2012
Un’immagine, che lascia a bocca aperta ma è anche eccessivamente simbolica, riassume ciò che c’è di buono e di cattivo in Corpo Celeste, primo lungometraggio della regista e sceneggiatrice Alice Rohrwacher: alcuni giovanissimi, bendati, cercano la loro strada a tentoni intorno a una chiesa spartana a Reggio Calabria. Sono allievi disillusi di un corso per la Cresima (missione: percepire quello che l’uomo nato cieco sentiva prima di essere guarito da Gesù). Il loro brancolare è una metafora piuttosto ovvia delle loro vite, che arrancano fuori dall’infanzia verso ciò che viene dopo. Ed è anche una sorta di metafora per la Chiesa Cattolica, che nella rappresentazione di Rohrwacher ha perso la sua strada e i suoi fedeli (‘La chiesa è roba da vecchi e da bambini’, osserva un parrocchiano). Rohrwacher combina un’intenzione documentaria (efficace nelle scene familiari) con una più allegorica. Il suo film diventa goffo quando l’allegoria ha il sopravvento, il che significa che “Corpo Celeste” spesso inciampa, insieme alla sua eroina dodicenne, Marta (Yle Vianello).

San Francisco Chronicle, Walter Addiego, 20 giugno 2012
A chi è disposto a tollerare le poche cadute nella pesantezza, Corpo Celeste narra la coinvolgente storia di una ragazza dodicenne spinta a forza in un mondo nuovo e strano.  La giovane Marta (Yle Vianello) ha trascorso gran parte della sua vita in Svizzera quando sua madre (Anita Caprioli) trasferisce la famiglia nella sua nativa Calabria e iscrive la ragazza a un corso di preparazione alla Cresima. Marta sembra sapere poco sulla religione, e appare improbabile che la stanza piena di ragazzi annoiati, istruiti da una seria e antiquata insegnante di mezza età (Pasqualina Scuncia), a malapena notata da un prete petulante (Salvatore Cantalupo di “Gomorra”), possa ispirare fervore spirituale. E la prospettiva del film sul sud Italia, tutt’altro che lirica, evidenzia strade sporche e cupi edifici malandati.

Variety, Boyd van Hoeij, 17 maggio 2011
Anche se i dialoghi e la recitazione degli attori sono naturali, il film dà il meglio quando non si affida alle parole, cosa che sembra del tutto appropriata visto che la protagonista non è una gran chiacchierona. Ci sono diversi momenti poetici, tra cui un passaggio sorprendentemente sensuale e tenero tra Marta e un crocifisso ligneo gigante che contrappone audacemente la sua esplorazione religiosa con il suo nascente interesse per la figura maschile.
Dove la mano della regista esordiente appare meno stabile è nel trattamento asimmetrico dei personaggi secondari e del materiale di sfondo, in particolare nelle scene che includono l’odioso prete del villaggio, Don Mario (Salvatore Cantalupo di Gomorra, alto e possente). Il film dipinge la religione come una parte reale del tessuto sociale del villaggio, e Mario è un personaggio affascinante e a tutto tondo. Tuttavia, Rohrwacher sembra incerta su come integrarlo nella storia, che per lo più rimane ancorata al punto di vista più innocente di Marta.


Monsieur Ibrahim

Chicago Reader, Meredith Brody
Francois Dupeyron (The Machine) ha diretto questa storia sentimentale sull’ amicizia tra un vecchio e saggio negoziante turco (Omar Sharif) e un ragazzo ebreo abbandonato. Il loro malfamato quartiere parigino, che ospita sia prostitute che piccola borghesia, vive un momento di eccitazione quando Godard e Bardot (incarnata da una Isabelle Adjani spaventosamente giovanile) arrivano per girare una scena di Il Disprezzo. La trama svolta verso il picaresco quando i due compagni comprano una sgargiante decappottabile rossa e intraprendono un viaggio verso il luogo d’origine dell’anziano  -un esotico reame dai colori brillanti, che sembra più antico di secoli della Parigi anni ’60. La banale vita adulta del ragazzo, intravista brevemente alla fine del film, contrasta acutamente con le avventure della sua giovinezza.

San Francisco Chronicle, Ruthe Stein, 5 marzo 2004
Il film parla dei tentativi di Ibrahim di trasmettere le sue conoscenze, estratte selettivamente dal suo prezioso Corano, ad un adolescente inquieto, abbandonato dalla madre e dal fratello, che lo hanno affidato a un padre depresso. Il ragazzo, Momo, è interpretato dall’esordiente Pierre Boulanger, che ha la sfrontatezza accattivante di Jean-Pierre Léaud in I 400 colpi. Condividere lo schermo con il radioso Sharif è un compito arduo, ma Boulanger è più che all’altezza … C’è un tocco religioso nella storia. Ibrahim è musulmano, anche se ovviamente un liberale; il suo protetto è ebreo. Il vero nome del ragazzo è Mosè. Ibrahim lo soprannomina Momo perché, dice, suona ‘meno impressionante’. Quando Ibrahim loda il Corano e ne regala una copia al ragazzo, non dà l’impressione di fare proselitismo. Come Ibrahim, il film non è mai dogmatico. Lancia un appello delicato per comprendere le altre religioni e prendere da ciascuna quel che funziona.”


Viaggio alla Mecca

The Guardian, Maya Jaggi, 7 ottobre 2005
Il pellegrinaggio annuale alla Mecca, in cui due milioni di pellegrini convergono nel luogo più sacro dell’Islam, è stato raccontato in documentari. Ma non era stato mai permesso di girare film nella città sacra saudita, fino al lungometraggio d’esordio del regista francese Ismaël Ferroukhi, Viaggio alla Mecca. ‘Nessuno guardava la telecamera,’ racconta stupito. ‘La gente non sembrava nemmeno vedere la troupe. Sono in un altro mondo
Ferroukhi, 43 anni, voleva raccontare la storia di un padre e un figlio che ‘vivono sotto lo stesso tetto, ma non parlano la stessa lingua, non si conoscono l’un l’altro’, una storia che rispecchia virtualmente la sua. Da bambino, crescendo a Crest, un villaggio nel sud della Francia in cui i genitori erano emigrati dal Marocco quando aveva tre anni, era rimasto affascinato dal pellegrinaggio di suo padre alla Mecca in auto.
Nel road movie di Ferroukhi, Reda viene strappato dalla sua scuola nel sud della Francia alla vigilia degli esami finali, e dalla sua fidanzata Lisa, per accompagnare il padre vecchio e autoritario nel pellegrinaggio. Ma, mentre la loro station wagon azzurro cielo (con una bizzarra portiera arancione) attraversa dieci paesi, dalle nevi bulgare al deserto siriano, i due sono costretti a fare i conti l’uno con l’altro. ‘Ho pensato che se riuscivo a rinchiudere insieme due personaggi per 3.000 miglia, sarebbero stati costretti a comunicare’, spiega Ferroukhi. Il padre, crudelmente, butta via il cellulare di Reda, e questo segna l’apertura forzata del dialogo.
I dialoghi in Viaggio alla Mecca sono notevoli per le loro lacune. Il padre parla solo arabo maghrebino, mentre Reda risponde ostinatamente in francese. ‘Ci sono delle differenze tra le generazioni in ogni parte del mondo’, dice Ferroukhi, ‘ma quando si vive in un altro paese, il divario si allarga’. Diventa un film sul linguaggio e sulla comunicazione attraverso enormi distanze tra fedi, culture e generazioni, tra migranti di prima e di seconda generazione, tra ortodossi e non credenti. ‘Cercavo di rendere eloquente il silenzio, perché le cose più profonde vengono trasmesse senza parole’, dice Ferroukhi. E ‘stato aiutato dalle efficaci interpretazioni di Nicolas Cazalé, attore francese di origine algerina che ha il fascino cupo e la vulnerabilità di un giovane M. Brando, e il veterano attore marocchino Mohamed Majd, che si ritrova agevolmente a proprio agio in Medio Oriente.


Dio esiste e vive a Bruxelles  (“The Brand New Testament”. Titolo originale: “Le tout nouveau testament”)

Variety, Peter Debruge, 17 maggio 2015
In principio, le cose andarono un po’ diversamente da quello che i sacri testi avrebbero voluto farci credere; o almeno, questa è l’ipotesi scherzosa da cui nasce Dio esiste e vive a Bruxelles di Jaco Van Dormael, un’irriverente ma innocua satira ontologica che applica un effetto da cartone animato alla storia cristiana delle origini. Tra l’altro, Van Dormael ha offerto un qualche mito alternativo della creazione in tutti e quattro i suoi lavori (che includono Toto le héros – Un eroe di fine millennio, L’ottavo giorno e Mr. Nobody). Questa volta, però, il maestro di idee belga si spinge a prendere di mira direttamente Dio, “rivelandolo” come un babbeo che vive a Brussels e siede al suo computer, organizzando disastri naturali per combattere la noia. Quando sua figlia si ribella e decide di illuminare contemporaneamente l’intera umanità, si scatena l’inferno, e la narrazione comincia a perdere il filo, innescando conseguenze demenziali che dovrebbero convertire scettici distributori in tutto il mondo.

The Guardian, Jordan Hoffman, 19 maggio 2015
Comincia al centro dell’universo: un appartamento squallido a Bruxelles. Dio passa le giornate a rovinare intenzionalmente la vita della gente, scrivendo regolesul suo obsoleto computer DOS e giocherellando con il suo trenino. Ridacchia mentre fa in modo che il toast cada sempre dal lato della marmellata, o che qualsiasi coda in cui ci si trovi sia la più lenta. Sua moglie (chiamata semplicemente la Dea) è dolce e semplice, si occupa del ricamo e della sua collezione di figurine di baseball. Ma la figlia Ea di dieci anni (interpretata da una fantastica giovane attrice, Pili Groyne) è attenta, accumula poteri, e vuole cambiare le cose. ‘Non farti venire idee folli come tuo fratello’, brontola il Papà, ma più tardi quella sera lei parla con il fratello ‘JC’ e insieme elaborano un piano. E aggiungerà sei discepoli e darà loro ascolto, creando così un Nuovissimo Testamento.


Uomini di Dio (“Of Gods and Men”)

LATimes, A. O. Scott, 24 febbraio 2011
Negli anni ‘90, l’Algeria fu attanagliata da una lunga, raccapricciante guerra civile tra il governo – che aveva instaurato la legge marziale dopo aver annullato elezioni che sembrava aver perso – e una spietata guerriglia islamista. Il paese fu sommerso dal terrore, con decapitazioni, gole tagliate e massacri su larga scala quasi quotidiani. Questa situazione feroce fa da sfondo a Uomini di Dio, un nuovo bellissimo film, austero e rigorosamente intelligente, del regista francese Xavier Beauvois. Anche se si svolge nel recente passato, Uomini di Dio ha una risonanza inconfondibilmente contemporanea, evocando come fa sia le caotiche guerre al terrore, sia le ribellioni che attualmente sconvolgono il Nord Africa e il Medio Oriente. Eppure, pur preoccupandosi di essere storicamente autentico, il film, strettamente basato sulla vera storia di un gruppo di trappisti cistercensi francesi colpiti dalla violenza, e infine uccisi, tiene d’occhio anche questioni meno terrene e materiali.
Beavois, un attore che ha scritto e diretto diverse opere, è chiaramente affascinato dalla radicalità dei monaci, un’espressione di fervore religioso il cui estremismo risiede nell’insistenza sul mantenimento della pace e della dignità in tutte le circostanze. Benché la sua simpatia per i trappisti sia evidente, tuttavia, il film non li dipinge come santi, o come portavoce di una particolare teologia. Piuttosto, Uomini di Dio si sforza di mantenere l’equilibrio fra i due termini del titolo e tratta il rapporto tra loro come un mistero profondo e complesso. Il tema potrebbe essere la religiosità, ma Beauvois e il suo cast non lo affrontano in modo devoto. Uomini di Dio è agile e pieno di suspence, austero quanto occorre senza essere troppo duro, e senza rinunciare ai piaceri abituali del cinema. Le interpretazioni sono forti, il racconto prende slancio mentre va avanti, e la fotografia prende vita dalla bellezza del paesaggio algerino.
Al posto di una colonna sonora tradizionale, gran parte della musica del film proviene dalla preghiera cantata dei monaci e dalle grida dei muezzin nelle moschee vicine. La notevole eccezione – l’unica volta che si sente musica profana registrata – arriva durante un pasto, quando gli abitanti dell’ abbazia si siedono, ascoltano un celebre brano del Lago dei cigni di Tchaikovsky e si perdono completamente nella fantasticheria estetica, come in altri momenti nella devozione religiosa.

Chicago Reader, J.R. Jones
Nessuno sa con certezza che cosa è successo ai sette monaci francesi che furono rapiti durante la guerra civile algerina e trovati morti nel maggio 1996. Ma Xavier Beauvois, che ha diretto e contribuito a scrivere questo toccante dramma spirituale (2010), non si preoccupa di quel mistero; è più interessato alla fede e alla devozione delle vittime, che rifiutarono di abbandonare il monastero di Tibhirine, nonostante il terrore sanguinario che dilagava intorno a loro. Nessuno degli uomini vuole essere un martire, ma il loro amore per gli abitanti del villaggio che assistono, e quello che nutrono l’uno per l’altro, prevale sul pericolo sempre crescente dei mujahidin assetati di sangue che pattugliano le strade di campagna e puntano sul monastero come obiettivo strategico. Ora straziante, ora avvilente, questa è una storia di uomini comuni la cui compassione è messa alla prova più crudele e più severo dei modi.

Village Voice, J. Doberman, 23 febbraio 2011
Noi abbiamo i nostri martiri e loro hanno i loro. Gli otto miti monaci trappisti descritti in Uomini di Dio testimoniano la fede che li ha portati dalla Francia in Algeria, solo per essere rapiti e massacrati, presumibilmente da fanatici di una confessione religiosa rivale. Il film si apre su una nota di festa, con un passo del Salmo 81 (‘Esultate in Dio nostra forza’) e una vista panoramica sulle colline algerine (in realtà marocchine). Arroccato appena fuori un villaggio arabo dall’aspetto povero, il monastero è anche un ambulatorio; la gente del posto si mette in fila ogni mattina per le cure mediche. I monaci sono ben integrati nella comunità; li si vede frequentare una festa di quartiere e partecipare al culto musulmano (che è particolarmente tollerante verso le altre religioni).


Going Clear: Scientology and the prison of belief

The Hollywood Reporter, Leslie Felperin, 25 gennaio 2015
Con la stessa metodica diligenza mostrata nei precedenti film investigativi come Taxi to the Dark Side, vincitore di un Oscar, Mea Maxima Culpa: silenzio nella casa di Dio e We Steal Secrets: The Story of WikiLeaks, Gibney offre una carrellata autorevole sulla storia di Scientology, sulle credenze e sulla struttura organizzativa, tratte da testimonianze di alcuni tra i suoi più importanti reduci e critici. Arricchito da rari filmati d’archivio, quasi interamente distribuito secondo le norme del fair use dopo che nessuna agenzia di stampa o titolare dei diritti hanno accettato di collaborare, il film è un accessibile strumento onnicomprensivo, capace di controbattere esaurientemente l’apatia di spettatori che potrebbero considerare l’organizzazione nulla più che un gruppo di pazzi innoffensivi che credono in elucubrazioni sul sovrano intergalattico Xenu e i vulcani.
Quanto alle rivelazioni tanto attese sui legami tra la chiesa e le celebrità, non c’è molto qui che non sia emerso prima, ma alcuni dei suddetti ex membri (Mark “Marty” Rathbun, Mike Rinder, Hana Eltringham Whitfield, Sylvia “Spanky” Taylor e Sara Goldberg) espongono con grande enfasi davanti alla telecamera la loro convinzione che membri di alto profilo come John Travolta e Tom Cruise non possono certo essere completamente all’oscuro delle peggiori accuse contro l’organizzazione. I resoconti su come la chiesa iniziò a minare il matrimonio di Cruise e Nicole Kidman, che come Cruise e molti altri si è rifiutata di parlare con gli autori, non sono inediti, né lo sono le storie sui tentativi dell’organizzazione di accoppiare Cruise a una nuova arrendevole fidanzata dopo che lui e Kidman si erano definitivamente separati.

NYTimes, Manohla Dargis, 12 marzo 2015
Nei primi minuti del documentario investigativo di Alex Gibney Going Clear: Scientology e la prigione della fede, si sentel’autore fare una domanda a Lawrence Wright, l’autore del saggio del 2013 sul quale il film è basato. ‘Scientology è un tale oggetto di fascino per la gente’, afferma Gibney fuori campo. ‘Come sei stato coinvolto dalla storia?’. Davanti alla telecamera Wright, un redattore del New Yorker, che nel film fa da portavoce della ragione e della razionalità, spiega di essere sempre stato interessato alle religioni e alle credenze. ‘Ho studiato Jonestown (la località in Guyana dove nel 1978 913 membri di una setta religiosa morirono nel più grande suicidio collettivo della storia moderna); ho studiato l’Islam radicale’, dice Wright. ‘Si tratta spesso di persone benintenzionate, idealiste, ma piene di una sorta di certezza schiacciante che elimina il dubbio. Sai, il mio obiettivo non era compilare una denuncia; era semplicemente comprendere Scientology, cercando di capire cosa la gente ne trae, e in primo luogo perché ci entrano.
Tom Cruise appare nel materiale d’archivio del film, mentre lo scrittore e regista Paul Haggis, tra i più noti transfughi di Scientology, è uno degli intervistati. Haggis è stato la colonna portante di un articolo del 2011, L’apostata, scritto da Wright e diventato la base del suo libro Going Clear: Scientology, Hollywood & the Prison of Belief. (‘Clear’ è un termine di Scientology). Haggis entrò nell’organizzazione appena ventenne nel 1975; sul New Yorker ha spiegato che ‘mi fu presentata come filosofia applicata’. Lungo due ore (il libro scorre per centinaia di pagine), il film, forse prevedibilmente, appiattisce la storia di Haggis. Un minuto sfoglia il libro di L. Ron Hubbard Dianetics: The Modern Science of Mental Health, uno dei testi di base di Scientology; il minuto dopo si è iscritto. ‘C’era un elemento sociale”, dice Haggis. Qui non menziona la filosofia nel suo racconto sulle origini.