Cinema e religioni: ecco le schede dei nostri film

Fabio Ferzetti, il critico del Messaggero che è anche il nostro direttore artistico, vi scodella un servizio prezioso: la radiografia puntuale di tutti i film che vedremo al cinema Palma, dal 25 al 28 settembre. Ecco dunque una dopo l’altra le schede, complete dei dati tecnici di ciascuna opera.


scieGoing Clear – Scientology e la prigione della fede

Regia: Alex Gibney
Interpreti: Lawrence Wright, Mark Rathbun, Monique Rathbun, Mike Rinder, Jason Beghe, Paul Haggis, Sylvia Taylor, Sara Goldberg, Tony Ortega, Kim Masters (se stessi)
Sceneggiatura: Alex Gibney, da Going Clear di Lawrence Wright
Fotografia: Sam Painter
Montaggio: Andy Grieve
Musiche: Will Bates
Produzione: Alex Gibney, Lawrence Wright, Kristen Vaurio per Jigsaw Productions
Paese: Usa
Genere: Documentario
Durata: 120’

Non avevamo mai visto Tom Cruise arringare le folle dal palco di una cerimonia di Scientology con mezzo chilo di medaglione stile Star Trek appeso al collo, anche se sapevamo che il divo fa parte di questa “chiesa” fondata dallo scrittore di fantascienza L. Ron Hubbard nel dopoguerra. Non conoscevamo l’imponente apparato scenografico di queste adunate, tra Leni Riefenstahl e Flash Gordon. Né avevamo ancora sentito il premio Oscar Paul Haggis (Crash, Nella valle di Elah) confessare di essersi lasciato irretire per 35 anni da Scientology prima di capire in cosa si era ficcato.
E anche se sapevamo di Cruise, e di John Travolta, altro protagonista involontario di Going Clear in una serie di scene d’archivio, e delle manovre di Scientology per separare Cruise da Nicole Kidman, fa impressione vedere queste testimonianze fondersi alle tante altre raccolte da Alex Gibney. In questa poderosa istruttoria contro una delle sette più chiacchierate del ’900, che accosta fonti di ogni tipo per far luce sull’argomento (testimonianze dei “pentiti”, dichiarazioni di Lawrence Wright, autore del libro a cui è ispirato il film, rare interviste a Hubbard in persona). Ma ci ricorda anche l’incredibile capacità di seduzione dimostrata da questa pseudo-fede così smaccatamente infantile che ci si chiede come abbia potuto far breccia nel paese più ricco del mondo. Fino a strappare nel 1993 all’Agenzia delle Entrate statunitense lo status ufficiale di religione, con conseguenti esenzioni fiscali.
E se Scientology, fatte le debite differenze, non fosse poi così lontana da ciò che sono state altre chiese in epoche passate? Dopo tutto Gibney è lo stesso regista che ha vinto tre Emmy con Mea Maxima culpa: Silenzio nella casa di Dio, inchiesta al vetriolo sugli abusi sessuali nella chiesa cattolica. Il dubbio è maligno, ma in fondo è anche questo a rendere questa pseudo-religione così scandalosa.


spoLa sposa promessa (Fill the Void)

Regia: Rama Burshtein
Interpreti: Hadas Yaron, Chaim Sharir, Ido Samuel, Irit Sheleg, Yiftach Klein, Hila Feldman
Sceneggiatura: Rama Burshtein
Fotografia: Asaf Sudry
Montaggio: Sharon Elovic
Musiche: Yitzhak Azulay
Produzione: Assaf Amir per Reshet Broadcasting, Avi Chai fund, Sundance
Paese: Israele
Genere: Drammatico
Durata: 90’

Una ragazza giovane e inesperta, già promessa a un coetaneo che le piace molto, aspetta trepidante di potersi finalmente fidanzare quando sopravviene una tragedia. La sorella maggiore, sposata e amatissima, muore di parto. I funerali e i festeggiamenti per l’arrivo del nuovo nato si tengono nello stesso giorno. Il dolore sembra insormontabile. Fino a quando la madre della ragazza, vedendola accudire amorosamente il bambino e scherzare con il cognato, ha una folgorazione. Sarà lei a sposare il vedovo di sua sorella, garantendo fra l’altro che l’uomo non vada a risposarsi lontano da casa portando con sé il figlio. Seguono patemi, complotti di famiglia, voltafaccia multipli. Amore e giustizia riusciranno a trionfare?
Non siamo in un romanzo di Jane Austen, né in un racconto di Isaac B. Singer. Siamo a Tel Aviv, oggi, e da questo spunto parte La sposa promessa. Forse il primo film ambientato fra gli ebrei ultraortodossi ad aver avuto una circolazione internazionale. Altro primato: la regista Rama Burshtein (New York, 1967), formatasi alla Scuola di cinema Sam Spiegel di Gerusalemme, appartiene al mondo che mette in scena. E lo fa proprio per «promuovere l’autonomia espressiva della comunità ortodossa».
Detto così sembra quasi ovvio, anche se non ci pare che gli chassidici, così barricati nel loro mondo, siano grandi consumatori di cinema. Trattandosi di un buon film, raccontato con efficace semplicità di mezzi e di linguaggio, La sposa promessa alza senz’altro il velo su un universo impenetrabile, rappresentato per una volta dall’interno. La Burshtein convince meno quando proclama a gran voce di non voler fare politica, perché il suo, come lei stessa dichiara, è anche un formidabile film di propaganda per la sua comunità. Che essendo ultraconservatrice, in costante boom demografico, e molto privilegiata (niente servizio militare, tasse ridotte) è al centro di violente polemiche in Israele. Un’occasione quasi unica per discutere su un mondo che non ama mostrarsi.


uomiUomini di Dio (Des hommes et des dieux)

Regia: Xavier Beauvois
Sceneggiatura: Étienne Comar e Xavier Beauvois
Fotografia: Caroline Champetier
Montaggio: Marie-Julie Maille
Musiche: Jean-Jacques Ferran, Eric Bonnard
Produzione: Pascal Caucheteux, Étienne Comar per Why Not Productions, Armada Films, France 3 Cinéma
Paese: Francia
Genere: Drammatico
Durata: 122’

In Francia non c’è giornale che non abbia usato la parola “miracolo”. Un po’ perché si parla del martirio dei sette monaci francesi trucidati dagli integralisti in Algeria nel marzo 1996, eccidio su cui non è ancora stata fatta piena luce. Un po’ perché è raro che un film austero come Uomini di Dio conquisti tre milioni di spettatori. Eppure è andata così. Gran premio della Giuria a Cannes, il film di Xavier Beauvois ha conquistato un pubblico immenso attirando gente di ogni età e condizione sociale, credenti e non credenti, cristiani e islamici. Tutti sedotti da una storia rievocata con limpidezza, semplicità e profondità.
Al film di Beauvois, se vogliamo, manca solo il lato dell’inchiesta. Des hommes et des dieux non si avventura infatti sul terreno minato delle ipotesi (per qualcuno i monaci furono uccisi non dai terroristi ma dai servizi segreti algerini, mentre per altri furono sì rapiti, ma poi finirono vittime di un bombardamento dell’esercito). In compenso ricostruisce la loro vita nel monastero dando tutto il suo significato a ogni gesto, a ogni momento, a ogni scelta, piccola o immensa, compiuta da quegli uomini nei mesi precedenti la loro morte.
Perché restare, sapendo a cosa andavano incontro? Per la stessa ragione per cui erano andati fin lì, fra i monti dell’Atlante, a portare una parola di fede – e assistenza medica e materiale – nel cuore di un paese islamico.
Dietro un successo tanto fenomenale c’è insomma un messaggio di profonda riconciliazione, fra i popoli e le fedi. Ma anche la capacità di porre in modo molto diretto e concreto domande fondamentali che pochi ormai osano formulare sulla fraternità, il rispetto dell’ambiente e del diverso, il senso del sacrificio, l’accettazione della morte. In una prospettiva intimamente religiosa ma mai confessionale, dunque capace di far breccia in agnostici e credenti.


timbTimbuktu

Regia: Abderrahmane Sissako
Interpreti: Ibrahim Ahmed, Toulou Kiki, Abel Jafri, Fatoumata Diawara, Hichem Yacoubi, Kettly Noël, Mehdi A.G. Mohamed, Layla Walet Mohamed, Adel Mahmoud Cherif, Salem Dendou
Sceneggiatura: Abderrahmane Sissako e Kessen Tall
Fotografia: Sofian El Fani
Montaggio: Nadia Ben Rachid
Musiche: Amin Bouhafa
Produzione: Sylvie Pialat
Paese: Francia – Mauritania
Genere: Drammatico
Durata: 97’

Silenzio. Una gazzella corre fra le dune. Stacco, un gruppo di uomini armati su una jeep apre il fuoco sull’animale per poi accanirsi su una catasta di idoli lignei crivellandoli di colpi. Sono integralisti, quegli idoli offendono l’Islam (il loro Islam), dunque vanno distrutti. Basterebbe il prologo del meraviglioso Timbuktu per capire l’immensa portata del lavoro di Sissako, il primo regista che riesce a raccontare l’orrore della Jihad senza esserne sopraffatto proprio perché rifiuta ogni retorica spettacolare per farsi carico del vero problema del cinema di fronte alla violenza. Come raccontare le peggiori nefandezze senza farsene ipnotizzare?
Nel 99% dei film che consumiamo ogni giorno, la scena della gazzella e degli idoli avrebbe generato un’orgia di immagini e rumori choc. In Timbuktu prevale la bellezza, l’incanto di ciò che è vivo e un attimo dopo viene distrutto. È una scelta morale ancor prima che estetica, ma dà forma e linfa all’intero film.
I jhadisti dunque arrivano a Timbuktu, perla del Mali, come è accaduto davvero nell’estate 2012, per imporre la loro legge con le armi. Ma il film non ne fa creature diaboliche (e affascinanti), anzi insiste su debolezze e goffaggini rendendoli ridicoli ma anche umani, e ancora più colpevoli. Qualcuno non sa guidare, altri parlano male arabo e devono ricorrere all’inglese, molti adorano il calcio e discutono di Messi e Zidane ma proibiscono di giocarlo in città: e qui c’è una partita senza pallone, giocata dai ragazzi di Timbuktu, assolutamente memorabile. Anche perché la bellezza non è una variabile indipendente. È proprio “il” problema, se non la soluzione. In Timbuktu ci sono lapidazioni, condanne, frustate, delitti, citazioni (da Leone a Tati passando per quella magnifica strega rubata a Rouch). Ma soprattutto c’è una bellezza che non si arrende. E forse è la vita stessa.


monsMonsieur Ibrahim e i fiori del Corano

Regia: François Dupeyron
Interpreti: Omar Sharif, Pierre Boulanger, Gilbert Melki, Anne Suarez, Guillaume Gallienne, Isabelle Adjani, Isabelle Renauld, Eric Caravaca
Sceneggiatura: François Dupeyron e Eric-Emmanuel Schmitt (dal libro omonimo di Eric-Emmanuel Schmitt)
Fotografia: Rémy Chevrin
Montaggio: Dominique Faysse
Produzione: Michèle Pétin et Laurent Pétin per ARP Sélection
Paese: Francia
Genere: Commedia drammatica
Durata: 92’

Un piccolo ebreo parigino senza madre e afflitto da un padre depresso e punitivo, viene accolto e poi adottato dal droghiere arabo all’angolo che tollera i suoi furtarelli e sembra leggergli nel pensiero, cresce grazie alla sua saggezza semplice e diretta, impara grazie a lui a godere e conoscere la vita. Fino a prenderne anche fisicamente il posto, facendosi a sua volta musulmano.
Presentato per rendere omaggio a un attore che sapeva essere meraviglioso come Omar Sharif, Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano è una luminosa parabola sul diverso, sulla tolleranza, su quell’altro da sé che bisogna imparare a capire, anzi ad accogliere come un’occasione di crescita e di arricchimento reciproco. Utopie? Certamente. Ma il cinema sa anche dar forma all’impossibile plausibile. E il film tratto dalla novella di Eric-Emmanuel Schmitt (edizioni e/o), anche rivisto in tempi così cambiati da quelli in cui fu presentato la prima volta, ha la grazia un poco insistita delle favole a cui è bello lasciarsi andare.
Sono fiabeschi gli anni ’60 reinventati nella rue Bleue, enclave mediorientale nel cuore di Parigi; escono da un sogno le puttane generose da cui il piccolo Mosè, detto Momo, corre dopo aver rotto il salvadanaio; appartengono alla mitologia di quegli anni le canzoni che ci cullano nella colonna sonora. O quella diva nouvelle vague (“cameo” della Adjani) che gira un film nella rue Bleue con una spider rossa come quella su cui partiranno Momo e il droghiere.
Abile, speranzoso, gradevole, per qualcuno anche troppo. Ma con tutte le sue scorciatoie poetiche, i dervisci danzanti, le battute ad effetto («È il sorriso a rendere felici», «Ciò che dai è tuo per sempre, ciò che tieni è perduto per sempre»), il film di Dupeyron si tiene miracolosamente in equilibrio fra la memoria e la fiaba (dietro M. Ibrahim c’è il nonno orafo di Schmitt). E sa come volgere in chiave di tolleranza la figura più rimpianta di questi anni confusi: quella del padre.


viviViviane (Gett, le procès de Viviane Amsalem)

Regia: Ronit Elkabetz e Shlomi Elkabetz
Interpreti: Ronit Elkabetz, Menashe Noy, Simon Abkarian, Sasson Gabai, Eli Gornstein, Gabi Amrani, Rami Danon, Roberto Polak, Dalia Beger
Sceneggiatura: Ronit Elkabetz e Shlomi Elkabetz
Fotografia: Jeanne Lapoirie
Montaggio: Joelle Alexis
Produzione: Sandrine Brauer, Rémi Burah, Denis Carot, Michael Eckelt, Shlomi Elkabetz, Marie Masmonteil
Paese: Israele – Francia
Genere: Drammatico
Durata: 115’

Se pensate che nulla sia più appassionante di un “courtroom drama” americano, non avete ancora visto un film giudiziario israeliano. Altro che arringhe, giurie popolari e mi oppongo vostro onore. Qui i giudici sono tre rabbini, l’unica fonte del diritto è la religione, almeno nei divorzi. E i contendenti, i testimoni e perfino gli avvocati devono stare attenti a ciò che dicono e come si vestono. Perché «qui siamo tutti imputati», almeno in potenza. Tanto più che per la legge ebraica nei divorzi l’ultima parola spetta al marito, che in base a una tradizione risalente al Deuteronomio può accordare o meno alla moglie il “gett”, ovvero il ripudio.
Ne sa qualcosa la povera Viviane (Ronit Elkabetz, ancora una volta coautrice del film insieme al fratello Shlomi, una delle coppie più interessanti del cinema mondiale). Per cinque anni infatti Viviane implora, scongiura, minaccia, blandisce il marito, uomo pio e ostinato, senza che la macchina da presa esca un istante dal tribunale. Mentre gli avvocati, i testimoni e gli stessi coniugi mettono in piazza, volenti o nolenti, i risvolti più intimi della loro vita. E lo spettatore cerca di tener dietro a un film che suggerisce mille possibili interpretazioni con un’economia di mezzi stupefacente.
Tutto è segno, infatti, in questo film-processo generoso quanto rigoroso che a tratti sembra una pièce di Eduardo girata da Dreyer. Gli sguardi, i silenzi, gli abiti, i colori, i gesti, teatrali o trattenuti, le voci. Ma anche i sentimenti che lampeggiano negli occhi dei coniugi. E in quelli di tutti, perché può capitare che un teste accusi l’avvocato di amare segretamente Viviane, gettando su entrambi un sospetto gravissimo. Che il film si guarda bene dal confermare o smentire, facendo di quella che altrimenti sarebbe solo una sacrosanta requisitoria in favore della parità dei sessi un romanzo affollato di storie, passioni, atti mancati, cui un gruppo di attori fantastici dà tutti i sapori del mondo.


viagViaggio alla Mecca (Le grand voyage)

Regia: Ismaël Ferroukhi
Interpreti: Nicolas Cazale, Mohammed Majd, Jacky Nercessian, Kamel Belghazi
Sceneggiatura: Ismaël Ferroukhi
Fotografia: Katell Dijian
Montaggio: Tina Baz Legal
Musiche: Fowzi Guerdjou
Produzione: Humbert Balsan per Ognon Pictures, Arte France, Les Films du passage, Soread-2M, Casablanca Film Production
Paese: Francia – Marocco
Genere: Drammatico
Durata: 105’

Un padre e un figlio partono insieme per un lungo viaggio che segnerà entrambi per sempre. Il padre è un anziano marocchino immigrato in Francia, un uomo devoto che vuole compiere il pellegrinaggio rituale alla Mecca almeno una volta prima che sia troppo tardi. Il figlio un ventenne nato e cresciuto in Occidente che vive l’inappellabile decisione paterna come un’imposizione. Tanto più che il viaggio è lungo, la vecchia auto angusta, e la diffidenza reciproca si taglia col coltello.
Il padre fa di tutto per imporsi, con la forza granitica di chi è certo di essere nel giusto. Il figlio pensa ad altro, chiama continuamente la fidanzata (francese) sul cellulare, tenta disperatamente di visitare Milano o almeno Venezia… Così trascorrono le prime sequenze fatte di quasi nulla, gesti scarni, poche parole, paesaggi intravisti. Eppure nello spettatore prende forma un’emozione che continuerà a crescere e a raffinarsi fino all’epilogo, quando i due arriveranno finalmente alla Mecca.
Non succede spesso, almeno a memoria di occidentale, di vedere su grande schermo la città sacra dell’Islam, e basterebbero quelle impressionanti scene di massa a giustificare la visione di Le grand Voyage. Ma i pregi del primo film diretto dal 43enne franco-marocchino Ismaël Ferroukhi sono altrove. Fra scontri e incomprensioni, non senza un sottile umorismo, padre e figlio attraversano infatti Francia, Italia, ex-Jugoslavia, Bulgaria, Turchia, Siria, Giordania. E accanto al viaggio geografico se ne delinea uno interiore. Ma non si pensi a un film apologetico: nel pellegrinaggio di Réda e suo padre (così autentici benché siano attori professionisti) il dato religioso è secondario. O meglio discende dalle cose stesse, dagli imprevisti, dagli equivoci, dagli incontri. Insomma un grande film “spirituale”, ma incredibilmente semplice, diretto, fattuale. Come se l’esperienza, per una volta, prevalesse sulle immagini.


corpCorpo celeste

Regia: Alice Rohrwacher
Interpreti: Yle Vianello, Salvatore Cantalupo, Pasqualina Scuncia, Anita Caprioli, Renato Carpentieri, Monia Alfieri, Licia Amodeo, Maria Luisa De Crescenzo, Gianni Federico
Sceneggiatura: Alice Rohrwacher
Fotografia: Hélène Louvart
Montaggio: Marco Spoletini
Produzione: Carlo Cresto Dina, Jacques Bidou, Marianne Dumoulin, Tiziana Soudani pr Tempesta, JBA Production, AMKA Films, in collaborazione con ARTE France Cinéma, RSI Radiotelevisione svizzera, Raicinema
Paese: Italia – Francia – Svizzera
Genere: Drammatico
Durata: 98’

Dal Vaticano di Habemus Papam a una sperduta parrocchia di Reggio Calabria. Dal pontefice riluttante a una 13enne di ritorno dalla Svizzera che prepara la cresima. Quando il primo film di Alice Rohrwacher fu presentato alla Quinzaine di Cannes, fioccarono i paragoni con l’ingombrante commedia papalina di Nanni Moretti. Ma l’accostamento era fuorviante. La giovane esordiente, che veniva dal documentario e guardava semmai al cinema dei Dardenne, prima di girare aveva infatti esplorato a lungo il mondo che voleva portare sullo schermo. Per poi raccontaro con gli occhi innocenti quanto acuti della piccola Marta, «emigrata di ritorno» con la sua famiglia in Calabria.
E se Moretti si era visto accusare di non prendere abbastanza sul serio il suo soggetto, Corpo celeste va dritto al cuore della faccenda. Crisi spirituale, mercificazione, corruzione, resa generalizzata al consumismo, anche in materia di fede. In quella parrocchia di provincia c’è tutto il peggio del nostro paese, dai bambini che fanno «Katekismo» a colpi di quiz, alla canzoncina «Mi sintonizzo con Dio», al parroco maneggione che vuole sistemare in chiesa un «crocifisso figurativo» al posto dell’attuale mostruosità fluorescente. E magari ingraziarsi il vescovo per ottenere una sede più prestigiosa.
Ma Corpo celeste (il titolo e diverse suggestioni vengono da Anna Maria Ortese) non fa sociologia. La prima dote della neoregista è lo sguardo partecipe che posa sui suoi personaggi, dalla spaesata Marta a sua madre, l’unica che sa amarla e capirla, all’ingenua Santa, la catechista che prepara i ragazzi con lo zelo e la goffa innocenza di chi è troppo parte di un mondo per coglierne l’assurdo. Muovendosi fra atmosfere e sentimenti che a tratti evocano i film dell’argentina Lucrecia Martel (La cienaga, La nina santa), ma scoprono un pezzo di Italia ancora mai visto al cinema.


napoNapolislam

Regia: Ernesto Pagano
Interpreti: non professionisti
Sceneggiatura: Ernesto Pagano
Fotografia: Lorenzo Cioffi
Montaggio: Matteo Parisini
Musiche: Marzouk Majri
Produzione: Lorenzo Cioffi per Ladoc e Isolafilm
Paese: Italia
Genere: Documentario
Durata: 75’

Dieci storie per capire come mai anche a Napoli l’Islam avanza a grandi passi. Dieci personaggi e le loro vite per entrare in una città eternamente fedele a se stessa, e al contempo aperta a tutte le mescolanze e le ibridazioni. Dieci percorsi tutti diversi per ricordarci chela forza dell’Islam non sta nelle bombe e nel terrorismo, ma nella sua capacità di fare proseliti. Entrando in tutti gli strati sociali, e puntando sulle motivazioni più diverse.
Qualcuno ha abbracciato l’Islam perché deluso dall’impegno politico e convinto ormai che la giustizia possa trionfare solo passando attraverso la legge coranica. Qualcun altro quei precetti li ha messi in musica e li canta da anni a ritmo di rap. C’è poi chi ha sposato un giovane venuto dall’Algeria e ora si fa chiamare Amina, per la disperazione di sua madre. Un altro ancora infine ha capito grazie al Profeta che vivere nel rione Sanità pensando solo alle donne e agli abiti alla moda era un trucco del maligno. E adesso, barba fluente e tunica bianca da convertito, si prepara a trasferirsi a Londra dove, da musulmano, avrà finalmente un lavoro.
Ma tutti hanno abbracciato questa fede lontana spinti da un’esigenza di ordine e moralità, come se solo il Corano fornisse loro un antidoto convincente alla corruzione e alla criminalità, all’ingiustizia sociale e al dilagare incontrollato di consumismo e promiscuità.
Pagano ha lavorato a lungo sul tema, frequentando per anni i suoi personaggi e i loro ambienti prima di iniziare le riprese del film. Ma ha finito per girare tra il 2014 e il 2015, a cavallo degli attentati di Parigi, raccogliendo anche le reazioni – contrastanti e spesso sorprendenti -a un evento così estremo. Un documento decisivo, realizzato senza certo aspettare Houellebecq. Anche se “sottomissione”, cioè Islam, è una delle parole chiave del film.


kreuKreuzweg, le stazioni della fede (Kreuzweg)

Regia: Dietrich Brüggemann
Interpreti: Lea Van Acken, Franziska Weisz, Florian Stetter, Lucie Aron, Moritz Knapp, Klaus Michael Kamp, Hanns Zischler, Birge Schade, Georg Wesch, Ramin Yazdan
Sceneggiatura: Anna Brüggemann e Dietrich Brüggemann
Fotografia: Alexander Sass
Montaggio: Vincent Assmann
Produzione: Leif Alexis, Jochen Laube, Fabian Maubach
Paese: Germania
Genere: Drammatico
Durata: 107’

Una piccola città della Germania del Sud. Una ragazzina di 14 anni, talmente devota da essere predisposta al sacrificio. Una famiglia di cattolici ultraortodossi aderenti all’immaginaria Società di San Paolo, modellata sulla (vera) Fraternità di San Pio X, associazione integralista che rifiuta tutte le riforme varate dalla Chiesa dopo il 1960. Dunque pronta a censurare qualsiasi apertura alla vita mondana e ai piaceri terreni come un cedimento sacrilego.
Da queste semplici coordinate prende le mosse un film rigoroso fino allo spasimo, costruito seguendo un percorso che ricalca le 14 stazioni della via crucis di Gesù. Con una ragazzina, convinta che il suo sacrificio sarà di aiuto al fratellino, al posto del Redentore. E un regista deciso a riprendere le 14 stazioni del suo personalissimo Golgota in altrettanti piani sequenza, con stile inflessibile e insieme perfettamente adeguato al progetto: macchina quasi sempre fissa; composizione delle inquadrature sapiente quanto invisibile (a cominciare dalla prima, che dispone un gruppo di cresimandi intorno a un tavolo come gli apostoli dell’Ultima cena); attori che riescono a imprimere massima concentrazione a dialoghi affilati come rasoi, anche se non escono mai dall’ambito della banalità quotidiana.
Perché i “peccati” di Maria, innocente ma in piena pubertà, quindi sorvegliata a vista dalla madre, nascono da un desiderio semplicissimo. Un coetaneo le propone di cantare con lui nel coro della sua Chiesa. Ma la proposta è due volte peccaminosa. Perché viene da un ragazzo, cosa che Maria nasconderà alla madre. E perché quella chiesa non osserva le proibizioni della società di San Paolo. In quella parrocchia moderna non si cantano solo inni sacri ma anche gospel e spiritual, «musiche del demonio», scandite da ritmi lascivi… La violenta opposizione materna a questa modesta richiesta scatenerà la reazione a catena. Maria non può più tornare indietro. A noi il compito di riflettere sulla logica implacabile e perversa che regola il suo destino.


wateWater – Il coraggio di amare  

Regia: Deepa Mehta
Interpreti: Sarala Kariyawasam, Lisa Ray, Seema Biswas, John Abraham, Kulbhushan Kharbanda, Waheeda Rehman, Raghubir Yadav, Vinay Pathak
Sceneggiatura: Deepa Mehta e Anurag Kashyap
Fotografia: Giles Nuttgens
Montaggio: Colin Monie
Musiche: Mychael Danna e A.R. Rahmanh
Produzione: David Hamilton, Dilip Mehta, Marek Posival
Paese: India – Canada
Genere: Drammatico
Durata: 110’

Una piccola vedova di appena 8 anni viene portata dal padre in un ashram di Varanasi perché vi passi il resto dei suoi giorni, come usa tra gli induisti più osservanti, insieme ad altre 14 vedove di ogni età. Siamo nel 1938, L’India è ancora sotto gli inglesi, e in molte zone del paese si danno in moglie bambine e adolescenti a uomini più anziani. Restare vedove anche in giovanissima età non è dunque così insolito. Ma come scopre ben presto la piccola Chuyia, dietro le apparenze dell’espiazione (le vedove erano ritenute responsabili della morte del marito per il loro cattivo karma), l’ashram nasconde inganno e sopraffazioni.
Ingenuamente convinta che presto la madre verrà a portarla via di lì, Chuyia impara a temere la perfida e grassa Madhumati, raccoglie le confidenze e i deliri di un’altra anziana vedova, fa amicizia con la bellissima Kalyani, l’unica a cui non sia stata rasata la chioma. Ma naturalmente non capisce cosa accada davvero di notte, quando Kalyani viene portata via fiume nelle dimore più sontuose della città. Non sa quanto è pericoloso aiutare la sua nuova amica a incontrare in segreto un affascinante sostenitore di Gandhi folgorato dalla sua bellezza. Né quale sia il ruolo di quel personaggio travestito da donna, l’eunuco Gulabi, confidente della temibile Madhumati…
Terzo capitolo della “trilogia degli elementi”, aperta da Fire e Earth (1996 e 1998), Water è forse il più bel film di Deepa Mehta, indiana residente in Canada, per l’equilibrio con cui maneggia le sue componenti fondamentali. L’ambientazione, di sicura suggestione “esotica”, in un’epoca di transizione che non era facile rappresentare. Un pugno di personaggi scolpiti con forza, in testa quelli femminili. Una storia cupa e insieme pudica che ci ricorda gli spaventosi abusi compiuti ancor oggi contro le indiane in nome della religione e della tradizione. Non a caso il film, avversato dalle autorità e attaccato dai fondamentalisti hindu, che distrussero i set e minacciarono di morte l’autrice, iniziò in India per poi essere ultimato segretamente in Sri Lanka.


dieuDio esiste e vive a Bruxelles (Le Tout Nouveau Testament)

Regia: Jaco Van Dormael
Interpreti: Benoît Poelvoorde, Catherine Deneuve, Yolande Moreau, Pili Groyne, Emylie Buxin, Cyril Perrin, Anna Tenta, Romain Gelin, Julien Jakout
Sceneggiatura: Jaco Van Dormael e Thomas Gunzig
Fotografia: Christophe Beaucarne
Montaggio: Hervé de Luze
Musiche: An Pierlé
Produzione: Jaco Van Dormael, David Claikens, Jérôme de Béthune, David Grumbach, Philippe Logie, Daniel Marquet, Olivier Rausin, Frank Van Passel, Patrick Vandenbosch, Alex Verbaere, Arlette Zylberberg
Paese: Belgio – Francia – Lussemburgo
Genere: Commedia fantastica
Durata: 113’

«Dio esiste. Abita a Bruxelles. È odioso con sua moglie e sua figlia. Si è parlato un sacco di suo figlio, ma pochissimo di sua figlia. Sua figlia sono io. Mi chiamo Ea, ho dieci anni. E per vendicarmi ho spedito per sms la data della loro morte a tutti gli abitanti del mondo…».
Il regista di “Toto le héros” non è certo nuovo alle imprese folli, ma “Il nuovissimo testamento” (così suona il titolo originale) le batte tutte. Dio esiste, ha la ghigna sghemba di Benoit Poelvoorde, popolarissimo comico belga del genere sinistro, e se ne sta tutto il giorno in casa a ciabattare. Quando gli viene un’idea si mette dietro al suo mega computer e hop! la vita del genere umano peggiora all’istante.
Perché questo Dio da eresia gnostica è un bambino dispettoso e vendicativo che ce l’ha proprio con noi. Dunque passa le sue giornate tutte uguali a provocare catastrofi o promulgare regole assurde. Ma per fortuna c’è sua figlia, che scoprirà come uscire di casa. E se ne andrà per il mondo in cerca di sei apostoli (perché solo sei? lo scoprirete) per riscrivere le regole del gioco. E intanto magari dare un aiutino alle loro vite non esattamente da favola, visto che questi “apostoli” nuovi di zecca sono un sicario, un maniaco sessuale, una mutilata, un bambino malaticcio, una moglie tradita, un impiegato frustrato.
Non sarà facile, anche perché nel frattempo il padre furibondo le corre dietro. Ma questa nipotina di Alice nel paese delle meraviglie, che poi sarebbe il nostro misero mondo, può fare miracoli. Letteralmente. Anche se di un genere del tutto nuovo. In un trionfo di effetti digitali, trovate surreali, colpi di scena iper kitsch, musiche di ogni genere, strizzate d’occhio a ogni possibile slogan, icona, dogma, stereotipo della cultura pop, che manda in visibilio il pubblico ma ha diviso la critica francese in sostenitori entusiasti e feroci detrattori. Anche se nessuno per ora, e questo è già un grande risultato, ci ha visto un’offesa alla religione.